Mi scopiazzo pedissequamente da qui, ché il tempo è poco e la stanchezza è tanta e non mi viene neanche da inventarmi un titolo diverso. Ma il fine giustifica i mezzi, e in questo caso l’argomento è importante assai, credo.
Come tutti sanno, di questi tempi che la questione è tristemente salita agli onori delle cronache, la legge 194 prevede l’obiezione di coscienza per i medici. Nell’articolo 9 si afferma che “il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione”, fermo restando però che “l’obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”.
I problemi a riguardo sono molteplici.
Va detto – e alcuni recenti avvenimenti dovrebbero far riflettere in proposito – che in più casi l’obiezione di coscienza viene attuata dai medici non solo o non tanto per convinzione morale, quanto per motivi “di comodo”, che variano dal volersi fare qualche turno in meno alle ingenti prospettive di guadagno offerte dal praticare aborti “in nero”, al di fuori delle strutture pubbliche.

Spesso quindi l’obiezione si configura più come atto volto a fornire un’immagine “di facciata”, che magari consente anche maggiori possibilità di carriera, piuttosto che come posizione etica, oltre che come arma pericolosissima per inficiare a livello pratico l’applicazione della 194 stessa.

Si aggiunga a questo che, se l’obiezione di coscienza è prevista dalla legge – cosa già di per sé opinabile – solo per l’aborto propriamente detto, e quindi solo in caso di gravidanza diagnosticata e accertata tramite procedure mediche, altrettanto non vale per la pillola del giorno dopo. Quest’ultima infatti non è da considerarsi abortiva (leggi qui per ulteriori dettagli), anche se ultimamente si è creata, in modo più o meno voluto, tutta una gran confusione per cui spesso e volentieri i farmacisti si rifiutano di venderla, o i medici di prescriverla.
A questo proposito segnalo ancora una volta il sito dell’Associazione Luca Coscioni, dove la faccenda è spiegata in modo molto chiaro:

“Un’altra peculiarità del nostro Paese riguarda l’obiezione di coscienza, che è prevista soltanto dalla legge 194 sull’interruzione di gravidanza (e che quindi prevede una gravidanza accertata), ma secondo un parere non vincolante del Comitato Nazionale per la Bioetica potrebbe essere estesa alla prescrizione della pillola del giorno dopo (in assenza di una gravidanza accertata).
Sono segnalati in tutta Italia casi di ospedali che negano la prescrizione della pillola del giorno nei momenti critici in cui non è reperibile né il medico nel consultorio familiare, né il medico di base (per esempio durante i finesettimana), adducendo come come motivo l’obiezione di coscienza dei medici di turno.”

L’obiezione di coscienza alla pillola del giorno dopo, scorretta sia giuridicamente (il testo della legge non ne fa cenno) sia fisiologicamente (non si tratta infatti di medicinale abortivo), sarebbe pertanto, almeno sul piano teorico, passibile di denuncia, tanto nei confronti del medico che non la prescrive quanto verso il farmacista che non la vende.

E arrivo al problema numero due, ossia la liceità o meno dell’obiezione di coscienza.
Qui, me ne rendo conto, si scivola nel ragionamento fine a se stesso, nel filosofico, nel campato in aria: io però credo che sia un discorso importante da fare, ché il tema dell’obiezione è ampiamente dibattuto, per quanto astrattamente, e spesso con poca cognizione di causa.

Mi è capitato di discuterne proprio di recente: ché anche a sinistra c’è chi sostiene la legittimità dell’obiezione, in quanto scelta dettata da motivazioni etiche e quindi spettante di diritto al singolo medico, in modo del tutto analogo alla scelta di abortire da parte da una donna.

Ecco, io su questo non sono d’accordo.
Partendo dal presupposto – non negoziabile, tanto per fare un po’ il verso alle gerarchie ecclesiastiche – che ogni donna è libera di decidere autonomamente e individualmente del proprio corpo, e che in questo discorso rientra a pieno titolo tutto ciò che concerne gravidanza e maternità (e quindi anche la possibilità di rinunciarvi), è appannaggio esclusivo della donna anche il risvolto etico della faccenda.
In parole povere, l’obiezione di coscienza (così come la non-obiezione, del resto) riguarda soltanto la donna, perché l’unica coscienza coinvolta è la sua e il medico, in quanto privo di facoltà decisionale a riguardo, non è che il tramite mediante il quale la donna mette in atto una decisione che spetta unicamente a lei.
Solamente suo sarà, di conseguenza, anche il problema della dimensione etica della sua scelta e delle ipotetiche responsabilità morali da prendersi a riguardo.
Ammesso e non concesso che il rapporto religione-aborto sia esattamente come ce lo raccontano, ché non ne sono poi così sicura.