Category: (non) ce la posso fare


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Ho bisogno di tornare a scrivere un po’. Molto bisogno.
E non lo so cosa sia successo in questi ultimi tempi, fatto sta che non ci riesco più.
Per due ragioni, fondamentalmente.
La prima è una ragione stupida, ma tant’è.
E la ragione stupida è che questo blog non mi piace più. Non mi piace talmente più che i post, per riuscire a finirli, sono costretta a scriverli da un’altra parte e poi fare copia incolla. Ma poi, dopo, quando leggo, non la riesco proprio a sopportare questa schermata che è troppo bianca e troppo verde, con gli allineamenti dei riquadri laterali tutti sballati, con i caratteri scritti troppo grossi, con quel Malato di cuore lungo otto chilometri a fare da titolo, messo lì quando ho aperto il blog ed ero una diciassettenne triste alla ricerca disperata di un Qualcosa che mi mettesse in comunicazione con il mondo. Un filtro, quello della virtualità, che mi consentisse di sconfiggere altri filtri, di rompere quel vetro invisibile che mi tratteneva ostinatamente dall’altra parte. Fino a venirne fuori, in qualche modo, lentamente, emergere piano da quella specie di fanghiglia emotiva che mi imprigionava.
E sotto questo punto di vista ha funzionato. Ma tantissimo, ha funzionato.
Adesso però la guardo questa schermata insopportabile, e non mi ci riconosco più, non mi riconosco più nelle sensazioni istintive che mi trasmette e anzi, ne sono tremendamente infastidita. La guardo e mi rimbalza addosso l’immagine di me allora, con quella tristezza appiccicosa, con quell’indefinito di sensazioni sgradevoli. La guardo schifata dal senno di poi, perché ho imparato a diffidare delle finte sicurezze che la tristezza può offrire e ancor più degli uomini che se ne lasciano sedurre, e poi perché mi sono resa conto che la vita di un Malato di cuore
è mai poter bere alla coppa d’un fiato, ma a piccoli sorsi interrotti, nient’altro. Con tutto quello che può significare.
La seconda cosa è direttamente collegata, al punto che non so neppure quale delle due influenzi l’altra, e però è molto più difficile da rimediare. Potrei dire che da domani inizierò a pensare a un nome nuovo per il blog, a un look nuovo che mi trasmetta sensazioni positive, un po’ come quando si cambia il taglio di capelli o il colore, o entrambi. O anche potrei mettermici subito, appena finito di scrivere, sempre che ci arrivi, alla fine, perché sento già quella sensazione odiosa che mi paralizza le mani sulla tastiera facendomi vergognare di quello che scrivo, di come lo scrivo e di quanto poco assomigli al modo in cui l’ho pensato.
L’ho detto, eccolo qui, il secondo problema.
E’ una cosa che ho capito in modo chiaro dopo che mi è venuto in mente di fare l’esperimento dell’
Ortica. Il fatto è che l’Ortica è prima di tutto un espediente di scrittura. Prima ancora di essere diventata il filtro attraverso cui io cerco di guardarmi in modo oggettivo e di demolire i miei alibi. O forse è nata come le due cose insieme, inscindibili l’una dall’altra.
Quello che è certo, in ogni caso, è che io non posso sentirmi a mio agio quando scrivo solo nella misura in cui faccio finta di essere qualcun altro. Così aggiro l’ostacolo ma non risolvo il problema, che sono io, la percezione che ho di me attraverso la scrittura.
Scrivo come se mentre sto scrivendo desiderassi con tutte le mie forze di essere un altro, qualcuno che lo sa fare meglio di me, ma non solo, qualcuno anche che ha veramente qualcosa da raccontare, o da inventare, o su cui saper pensare.
Scrivo come qualcosa che si desidera intensamente ma poi genera mille ripensamenti, ma anche come qualcosa che ho deciso che in un modo o nell’altro avrei imparato a fare, costi quel che costi.
Avrei sicuramente raccontato delle storie, per non morire. E quindi no, non mi arrendo ancora.
Inizierò cambiando il look al mio blog, ma poi soprattutto farò esercizio, leggerò tanto, vivrò a fondo. Lavorerò su questo mio accettarmi a malincuore, come si accetta un figlio non voluto. Lo trasformerò, lo riconvertirò.
E poi chissà.

E c’è un’alba, simile a mille altre che hai visto nel corso della tua vita, con la luce che è grigia e lentamente si schiara, e si colora, e dapprima è celeste, è poi rosa, quindi in un baleno, da dietro i poggi, sbuca il sole, e il cielo, investito da tanta luce, sembra scattare più in alto. (…) E’ il giorno in cui, a nostra insaputa, la vita si volta come si volta sul palmo il dorso della mano…

Avevo promesso un post.
Stasera però sono maledettamente stanca, ho la fonduta al posto del cervello, una voragine nella pancia e un bisogno disperato di carboidrati.
Al pensiero del mio prossimo esame mi sento come se a interrogarmi su Omero ci fosse Severus Piton, e le centinaia di versi che mi restano da tradurre incombono su di me minacciose quasi quanto i centimetri di pergamena del tema sui vampiri.
No, decisamente oggi non ce la posso fare.
Però, questo è il mio
oroscopo di Internazionale di questa settimana:

“Dovremmo trovare eccitanti i problemi che affrontiamo e la nostra capacità di risolverli”, diceva il filosofo Robert Anton Wilson. “Quella di risolvere problemi è una delle funzioni più alte e più sensuali del nostro cervello”. Sono perfettamente d’accordo con lui e mi aspetto che nelle prossime settimane diventerai ancora più intelligente di quello che sei. Gli enigmi che dovrai risolvere saranno particolarmente sensuali. I cambiamenti futuri che sarai invitato a innescare daranno alla tua immaginazione l’equivalente di un massaggio profondo.

Quanto è pazzesco?

Scatto.
Si raccoglie la palla da terra.
Si posa la palla per terra poco più in là.
Altro scatto.
Arrivati in fondo, cinque flessioni sulle braccia.
Scatto per tornare indietro.
A metà percorso si raccoglie di nuovo la palla da terra e di nuovo si posa la palla per terra.
Altro scatto fino al punto di partenza.
E si ricomincia da capo.
Finché non ti senti male.

Credevo di morire, io, stasera.

sempre e comunque

In questi giorni sto avendo un po’ di difficoltà a non far uscire il Molliccio dall’armadio.
Ma sono sempre e comunque in vantaggio io.
E mi sto prendendo una bella rivincita sul mio autolesionismo.
E ho un sacco di altre cose migliori a cui pensare.
E ho scoperto delle nuove poesie.
E venerdì sera vado al concerto di Guccini.
E sono serena. Sempre e comunque.

Non ci voglio pensare, non ci voglio più pensare finché non mi dicono com’è andata.
E pazienza se non tutto è andato come doveva o voleva andare, pazienza se all’orrido commissario di italiano avrei volentieri frantumato il setto nasale a martellate.
Pazienza se sono stanca e stamattina mi sono alzata alle cinque per prendere il treno, pazienza se mi fanno male tutte le gambe e il mio ciclo ritarda e il biorologio fa un po’ quello che vuole lui, pazienza se per colpa della tensione accumulata in questi ultimi tempi sono un po’ tutta sballata, se mangio strano,se arriva settembre e l’umido e la pioggia e insieme le cerette rimandate all’infinito e lo smalto scrostato sotto i calzini.
Pazienza se il tempo fa ostinatamente schifo, pazienza se tra due giorni viene l’autunno ed è già il tempo delle felpe e della noia di mezza stagione, pazienza se viene buio presto e la città muore al mattino negli uffici e tutto il resto del mondo è a scuola, pazienza se tornano le ore di punta che lungo la strada non si può più respirare.
Questa settimana che viene, questa settimana corta che inizia di martedì, per me sarà come un’estate meravigliosa.

attese

Meno uno.
E niente di nuovo sul
fronte occidentale.
In questo momento la mia vita è ferma sul binario un po’ come la locomotiva prima di essere lanciata a bomba contro l’ingiustizia.
Aspettiamo. Vediamo contro cosa andrà a sbattere. La mia vita è come me, non è in grado di muoversi piano ma fa casino, sempre, rovescia gli oggetti e sbatte le porte, inciampa negli scalini e non guarda mai dove mette i piedi.
Per adesso è come se avessi qualcosa che mi fa il solletico dentro la pancia, la sensazione del vuoto allo stomaco permanente, i piedi che mi si muovono da soli. Sono elettrica.
Ho voglia di mettermi a costruire la mia vita, dovunque sarà e in qualunque modo. Vorrei che mi dicessero dove vivrò tra due settimane, e vorrei non dover aspettare la telefonata dall’ospedale, e che l’unica certezza riguardo al mio immediato futuro, ora come ora, non fosse quella di una sala operatoria.
Ma vorrei proprio non aver più nulla da aspettare, e poter essere libera di mettermi al lavoro.
Vorrei non avere mille questioni in sospeso, risposte da dare, alternative da ponderare e possibili soluzioni da soppesare.
Vorrei non avere il fiuto di un husky antidroga per le situazioni sentimentali da delirio.
E vorrei proprio saper impedire alla mia vita di lanciarsi a bomba contro un’altra storia sbagliata, o la stessa storia sbagliata.
Mi ci vedo già, a dimenticarmi ancora una volta che “incondizionatamente” nel vocabolario di una qualsiasi relazione non ci deve stare neanche di striscio. Oppure a rifugiarmi nella vecchia e pia illusione che le cose di un rapporto tra due persone succedano sempre da sole e derivino una dall’altra in automatico, senza che ci sia bisogno di farle rientrare nei ranghi, di lavorarci e indirizzarle e talvolta prenderle di peso e spostarle da un’altra parte. No.
Non è che in una storia si può andare con il cambio automatico. Fosse veramente tutto così semplice da poter semplicemente saltare a piè pari l’impasse del che cosa siamo e dove andiamo, poter sempre aggirare l’ostacolo della discussione reciproca. Per scongiurare il rischio di trovarsi poi a dire che è meglio rinunciare, che non ci sto ad avere una storia se il prezzo da pagare è un continuo esercizio di resistenza al dolore. Che non è buttandosi nel letto di un uomo che si guadagna il premio di significargli qualcosa, e ancora meno di significare qualcosa a se stesse.
Così non so.
Butterò anche questa nel calderone delle mille decisioni che mi aspettano nei prossimi giorni.
E tengo le dita ben incrociate, nel frattempo.

Potrebbe spiegare un milione di cose.
Potrebbe essere la ics dell’equazione che non mi tornava.
Ma porcamiseria, è una cosa importantissima, questa. Come ho fatto io a non rendermene mai conto? Non aver mai pensato che potesse essere proprio questo il qualcosa che non andava?
Devo essere stata proprio cretina, o magari terribilmente distratta, o magari cieca di troppo guardarmi dal di dentro senza sapermi immaginare dal di fuori, o troppo pigra, anche, che è un’ottima ragione per darsi sempre delle scuse di comodo.
Allora, Compagna Amber che non ride mai ma proprio mai, perché, compagna, perché non ridi mai? (Intrusione estemporanea dell’Ortica, che parla a nome dell’amicaE.)
Perché? Eh?
E lo confesso che mi dà un fastidio maiale. Mi riduce l’orgoglio a pezzettini, io che su me stessa pretendo di avere l’esclusiva. La fatica che sto facendo, in questo momento, ad ammettere che ho trascurato una cosa di un’importanza capitale, che neppure me ne rendevo conto, e passavo le giornate a fare la muffa in giro e chiedermi cos’è che non andava.
(Stai divagando. Perché, allora, si può sapere? dice la voce fuoricampo)
Ma a me viene male, a pensare che mi sono ridotta come l’Unione Sovietica. Dall’entusiasmo straordinario della rivoluzione al grigiore soffocante del regime. Sono diventata grigia e spoglia anch’io, come la facciata di un palazzone operaio alla periferia di Stalingrado. Il regime me lo sono imposto dentro la testa, facendo morire i Majakovskij e i Trotzkij, zittire le canzoni di festa, imbavagliare le parole di allegria nella mia mente. Steso su tutto un patto d’acciaio pesante come i compromessi, le rinunce, la noia. E’ così che ho funzionato per tutto questo tempo. E il mio cervello ha lavorato lavorato lavorato. Piani quinquennali di autocritica, ridiscussione, esercizio della mente. E non è che non sia servito a niente. Sotto Stalin l’industria pesante andava, eccome se andava. E anche la mia testa non se l’è cavata troppo male. Ma le ho fatto mancare un sacco di cose, e in ultima istanza dimenticare la motivazione profonda che la muoveva a fare tutto quello per cui si sforzava. Che era crescere, intellettualmente, criticamente, umanamente. Era aprirmi alle cose che avevo ignorato, ritrovare la continuità con il mio passato, era imparare nuove cose, un modo diverso e più valido di pensare e di stare al mondo, mettere in discussione in modo radicale quello che ero stata fino a un certo punto della mia vita.
Ecco cos’è. Che per tutto questo tempo c’era la censura. Finito un piano quinquennale se ne vara un altro, senza tregua, senza riposo e senza alternativa. Uno dove lo trova il tempo di ridere? Non si può. Tu devi pensare, Compagna. Non puoi permetterti distrazioni. Devi pensare pensare pensare. Lavorare lavorare lavorare. Devi tagliare fuori tutto ciò che ti distoglie dal raggiungere la tua meta, che chissà poi se esiste davvero. Ma così uno scoppia. Così è come tirare l’elastico della mutanda, direbbe la mia maestra di canto. Senza leggerezza, uno arriva massimo massimo alla prima ottava, al passaggio si strozza e la voce gli rimane lì.
E io ho macinato ore e ore di lavori pesanti, perché a un certo punto non volevo più essere la Compagna Amber bravissima a scuola e insignificante inconsapevole nella vita, per indolore che fosse questa condizione. Voi non lo sapete com’ero io un tre anni fa. Meglio così. Chi lo sa se lo dimentichi.
Io lo so, adesso, che quella che sono diventata lungo questi anni deve moltissimo ai miei piani quinquennali e allo sforzo che ci ho messo. Ma so anche che c’è tutta una fetta di mondo che le manca, perché lei stessa se l’è preclusa.
Come ho fatto a prendermi così esageratamente sul serio?
Adesso devo imparare a sdrammatizzare e ripensare tutto quanto in un’ottica completamente diversa. Devo appropriarmi di questa dimensione, che è un modus vivendi prima di tutto, di cui io non ho la minima esperienza né reale né virtuale, purtroppo per me. Compito per i giorni a venire, Compagna: devi imparare l’ironia. Smetti di estrarre carbone, Compagna, basta.
Devi scovare il pensiero-volantino introdotto clandestinamente nella fabbrica.
Dove c’è scritto che vogliamo il comunismo, quello vero, quello bello. Non Stalin.
Non l’Unione Sovietica ma il Cile di Salvador Allende. Con le canzoni, con la gente che ride nelle strade, con i murales bellissimi sulle facciate.
Ci vorrà tempo. Lenta costruzione. Acqua e respiro. Rotolando si gira, si balla
si vive, si fa festa. Rotolando si vive di discorsi leggeri, cori, di maschere notturne.
E questo, questo io me lo sono sempre dimenticato.

Per dirvi che sì, sono tornata. Un po’ anche perché mi fa un po’ tristezza vedere l’archivio di marzo con pochissimi post, quest’anno.
E che vi racconterò della vacanza meravigliosa a Dublino, prima o poi. Prima che passi in cavalleria. E che metterò anche le foto. Ma che oggi, oggi non ce la faccio proprio.
Tornata dall’Irlanda ho trovato ad aspettarmi una mole fotonica di cose da fare. E ho cambiato un fuso orario e un’ora legale in due giorni, e ho passato le notti in giro fino alle cinque del mattino e oltre, e ho un sacco di sonno arretrato e di studio arretrato e di persone arretrate e di menate arretrate da sistemare, per adesso.
Ma appena posso, ve lo prometto.
Tanto per cambiare, oggi sono un po’ di fretta…

di porpora e d’oro

Ci sono pezzetti di idee belle da raccattare, disseminati e un po’ nascosti tra le pieghe di questa giornata delirio. Oggi l’orologio ha fatto tutto un giro prima che tornassi a casa. Con lo zaino della scuola, con i chilometri della giornata che scorrono giù per la schiena, le braccia, le gambe. Sono esausta e non ce la faccio più. Sono esausta e scrivere qui mi riposa, ma devo ancora studiare. Stasera Pascoli e Cicerone. Cicerone no, Cicerone non ce la posso fare. Cicerone l’unico modo per commentarlo è parlare d’altro, prendere la filosofia a pretesto per scrivere quanto è pericolosa una società che si affida all’impulso cieco, si dimentica di pensare e si lascia portare ovunque la si trascini. Così, per dirne una.
Sono esausta della Ragazza Greca, del Quintaginnasiale Timido che continua a non aprire la finestra di camera sua e ha una pagella disastrosa, dei pasti fuoripasto, dell’autobus, della città avanti indietro, e poi di nuovo avanti, e poi di nuovo indietro, gente, strade, vicoli, rumore.
Sono esausta, ma contenta, tutto sommato.
Perché, come dicevo, ci sono giornate, come oggi, che in mezzo al delirio spuntano i pensieri nuovi come i fiori di primavera. Giornate in cui si sente un sacco di energia che ci gira dentro, anche se poi alla fine si disperde. Come i sette chakra, come la voce che non sapevo di avere e che ho scoperto oggi a casa della mia nuova meravigliosa maestra di canto. E dice, lei, che è proprio tutta questione di ascoltare il proprio corpo, i punti di equilibrio, che si canta con la pancia e nella pancia ci sta Muladhara, l’energia dell’amore. Che ti devi concentrare un sacco per sentire dove va a risuonare la voce dentro, e la prima cosa, per cantare bene, è saper respirare e sciogliere tutte le tensioni dei muscoli, trovare il punto in cui si scaricano, imparare a dosare il peso sui piedi e il diaframma che spinge e quando torna indietro esce la voce come le onde del mare. Che la voce non è mai in gola, casomai te la devi sentire in faccia, dietro il naso, tra il palato e gli zigomi. E controllare tutto insieme è difficilissimo, con la mia schiena tutta tesa e il mio corpo tutto storto cresciuto a strappi, a cibo cattivo e stanchezza e posture sbagliate. Devo ripensare al mio rapporto con lui, riabituarmi all’idea che esista un giusto mezzo tra riempirmi di paranoie e lasciarmi crescere selvatica e incriccata dalle cattive abitudini. Che potrei stare un sacco meglio di così, e senza chissà che sforzo, e senza per questo essere meno indipendente, meno diversa dai luoghi comuni dell’essere donna, meno me stessa. Che ci sarebbe da ripensare l’idea stessa di rapporto con il proprio corpo e che forse l’emancipazione si raggiunge anche un po’ così, quando ciò che fa stare bene coincide con ciò che è bello fare, in sé e non in rapporto a qualcos’altro. Questa tra l’altro è la mia tesina della maturità, forse, ma questa è un’altra storia, e adesso è tardi e gli occhi si chiudono, e i libri sul tavolo, e Myricae a quest’ora è tutto cielo stellato e rane nei prati, beate loro. Buonanotte.

Oggi, puntuale come il weekend, sono malata.
Tossicchio e sputacchio e rantolo e sgocciolo e tremo. Più un saltino in avanti del dente del giudizio di qua, una spintarella della gengiva di là, di tanto in tanto una capriola della cistifellea, il tutto nel mentre che i globuli bianchi combattono sul fronte occidentale.
In tutto questo cerco di consolarmi con le piccole gioie di quando si sta male, il mio letto con il piumone e l’ippopotamo di peluche da stritolare e tossirci dentro, un pomeriggio lento da far passare a ondate lunghe di pensieri stanchi e dormicchiati, un libro da incominciare, un altro da finire, le mie cose da scrivere, una tazza di the. Quando sto male mi riapproprio del rapporto con la mia casa, che all’improvviso è una tana calda da nascondercisi in fondo e non volerne proprio uscire. Neanche per una sigaretta o due passi in riva al mare, neanche per un minuto, neanche senza il bisogno di inventarsi una scusa per correre fuori e tornare la sera. Oppure la gioia di sentirsi troppo sfatti persino per essere di cattivo umore, avere i pensieri al rallentatore. E non riuscire a scovare il significato profondo di aver sognato di sciare su una pista da sci ma senza neve, vestita da sci ma con un caldo porco, con gli sci ma sci smontabili e progettati per andare anche nel deserto, e con uno sciatore alto bello e biondo che al posto di scaldarmi mi rinfrescava le mani soffiandoci sopra…

Un giorno, un bel giorno prenderò il coraggio a due mani, insieme alla faccia tosta. E glielo dirò, al mio Quintaginnasiale Timido, di aprire la finestra della sua stanza, ogni tanto. Perché non c’è come l’aria viziata di una cameretta di adolescente maschio, per peggiorare una giornata di devasto gastrico e nausea folle.
Non c’è come una giornata di nausea folle e abbiocco fotonico, per capire che non ce la sto facendo più.
Che quando non ascolto la testa, allora ci si mette il corpo. A farmi capire che questa non è vita. A intervenire là dove non sono capace, io, con la mia testa, a pormi dei limiti.
Ma non può andare avanti così. Non può essere prima l’affanno a riempirsi la vita il più possibile, con tutto quello che capita, e poi l’acqua alla gola, l’insoddisfazione, la stanchezza e la sensazione che non ci sia nulla di costruttivo. Non può essere le mille ore di lavoro, le corse, i salti mortali per far stare tutto. E poi le mille pagine arretrate da studiare, le giornate che non ho un minuto per me, le giornate che arrivo a casa e crollo sul letto senza neanche togliermi le scarpe. E i dolori da tutte le parti, e la nausea, e i cicli sballati, e il sonno arretrato.
E il maledetto orgoglio del mio stakanovismo disorganizzato. Voler fare a tutti i costi l’iperattiva ipertiroidea che sempre e comunque ce la fa. Senza una ragione che non sia il bisogno di darmi scadenze, intessermi una ragnatela di orari e di impegni autoimposti per poi trovarmici imbrigliata dentro.
Quando poi arriva l’attività bella, quella a cui mi dedicherei davvero se solo ne avessi il tempo, allora sono costretta a rinunciare. Perché le ripetizioni, d’accordo che non sono un impegno inamovibile. Ma c’è che quando si fa un lavoro a contatto con altre persone c’è anche un’etica professionale di cui bisogna tener conto. E’ questione che se io prima mi prendo un impegno e poi non mi trovo nelle condizioni di rispettarlo se non a scapito di altre possibilità, è un problema mio.
Così, ancora una volta incasso i no che non so dire.
E al prof di filosofia probabilmente dovrò dire che non ce la faccio, non ci riesco proprio, a stare dietro al progetto bellissimo sulla Resistenza nel levante genovese. E mi dispiace, mi dispiace tantissimo. Era un lavoro bello, un lavoro che ci tenevo veramente.
Ma non fatto a metà. Non fatto nei ritagli, quando ho tempo, quando mi ricordo.
E’ un lavoro che merita tempo, che ha bisogno che dietro ci sia un lavoro mentale costante, idee valide, un’organizzazione funzionante.
Quando do ripetizioni posso anche permettermi di esserci per metà. Anche se non è così che si fa. Anche se non è questo che mi soddisfa, se di soddisfazione si può parlare.
Ma quando faccio qualcosa a cui tengo sul serio, quando faccio qualcosa che non è cristallizzato in una routine che da scelta diventa subita, allora non mi va di esserci per metà.
Non posso permettermelo. Non ci sta. Un elastico lo tiri lo tiri finché si spezza. E io non ce la faccio a fare più di quello che sto facendo ora. Preventivando Ce l’hai una siga, of course.
Ma mi chiedo che bisogno c’è, che senso ha.
Non è vita, una vita di anestetici. Per non avere ore vuote, per non pensare. Ipotecare il presente per il futuro. Poi il futuro si consuma, poco a poco, come la suola delle scarpe. E io mi ritrovo che è passato un anno, due. E sto continuando a ipotecare lo stesso presente che due anni fa, un anno fa, ipotecavo per questo futuro.
Non ci si può alienare da soli. Non a diciott’anni, soprattutto.
Quando ancora potrei permettermi il lusso di una cazzonaggine adolescente un pochino più serena.
Io invece me la brucio tutta a cercarmi surrogati di vita adulta, e poi me la ritrovo a fissarmi da un primo piano ravvicinato di feisbuc, e le è rimasta solo la tristezza.

Ci ho pensato un po’, prima di decretare che in fondo non è proprio solo un lavoro di merda tout-court.
Di questo ero assolutamente convinta dopo aver conosciuto la mamma del mio ragazzino nuovo. Già al telefono non prometteva niente bene. Voce metallica, vagamente arrochita, tono scostante. Amica della mamma del Malato Immaginario, soprattutto. Poi me la sono trovata davanti ad aspettarmi sul portone, il giorno che dovevo andare in casa sua per la prima volta e avevo mezz’ora abbondante di ritardo per essermi persa a trovare il portone.
C’è che io mi diverto, quando sento le persone al telefono, a immaginarmele come sono fisicamente. Inutile dire che non ci prendo mai. Così su questa qui mi ero fatta un film pauroso. Mi ero immaginata una maschera da teatro comico. Castana, un sacco di rughe, un brufolo enorme sul naso come la ciliegina sulla torta.
Invece poi mi sono trovata davanti un rettangolo biondo cenere, occhietti di ghiaccio, mento volitivo, occhiali sulla punta del naso. Con quel tono di voce orrido. Con le labbra strette a esprimere tutta la disapprovazione.
Un misto tra Dolores Umbridge e la sorella brutta di Miranda Presley del Diavolovesteprada.
Il figlio è un ragazzino quintaginnasiale timidissimo, che parla sottovoce e si mangia tutte le parole. E’ un ragazzino che lo abbraccerei, dalla tenerezza che fa. Chiede il permesso di fare qualunque cosa. Di accendere la luce, persino di mettere le virgole.
E ci mettiamo tre quarti d’ora a mettere insieme tre righe scarse di versione. Stenta a capire la grammatica in italiano, non gli è chiara la differenza tra il che congiunzione e il che relativo, la funzione delle preposizioni. Oggi, che facevamo greco, già è andata molto meglio. Allora ho pensato che magari è paura, in parte. Paura che ha di dare la risposta sbagliata, per cui alla fine si impappina e confonde tutto in un unico minestrone. Allora mi sono chiesta se è per sua madre. Allora mi sono detta che non è che questo ragazzino è inerte. Reagisce, porcamiseria. In tre lezioni ha già fatto dei progressi, piano, a passettini. Anche se c’è tanto di quel lavoro da fare, che io ci penso e un po’ mi viene da tremare. Ma magari basterebbe scrollargli di dosso l’idea di essere una nullità, ecco, ho come questa sensazione.
E’ che dai genitori si capiscono un sacco di cose su come sono i loro figli. E’ stata la mamma del Malato Immaginario a fare di suo figlio un Malato Immaginario. Ai miei ragazzini, l’ansia dei loro genitori gli si rapprende tutta addosso. Alcuni se la scrollano e altri ci si seppelliscono, ci si scavano un angolino per rannicchiarcisi dentro. Sono figli della Genova-bene levantina, hanno mamme e papà medici, dentisti, a volte insegnanti. E io ci rifletto sempre un po’, ogni volta che mi arriva una loro telefonata. Perché poi i miei ragazzini non sono mai dei casi disperati, tutt’altro. A volte prendono voti decisamente sopra la media, sette, otto, di scritto come di orale. A volte io mi chiedo cosa ci sto a fare lì. E mi viene da pensare le paranoie dei genitori, ma non solo. Questi sono ragazzini che, semplicemente, da soli magari non si metterebbero lì a farsi i loro compiti come si deve, farebbero dell’altro, si distrarrebbero. Così, io genitore non è che aspetto che si prendano la facciata, che capiscano da soli di dovercisi mettere, che sviluppino il senso della loro responsabilità. No, lo prevengo. Accetto di spendere dieci euro l’ora perché mio figlio per un’ora se ne stia seduto alla scrivania a fare quei benedetti compiti. Gli compro la non-fatica di non doversi organizzare da soli, farsi i loro conti e trarne le debite conclusioni. Allora più che una paranoia, mi sa casomai di una forma di disinteresse. Una soluzione di comodo da ricchi, da chi può permettersi di pagare a suo figlio il palliativo alla sua pigrizia, così, senza doverci pensare su. E trasmettergli nel frattempo l’idea che in effetti no, non è che ce la può fare da solo, ha proprio bisogno che qualcuno gli stia dietro.
Una madre, una volta, al telefono mi dice Ah, mia figlia mica è una capra, eh. Ha sette di latino e otto di greco. Avrebbe solo bisogno di un’amica con cui studiare.
Al che io dico. Ma gliela devi comprare, a tua figlia, l’amica con cui studiare?
Che poi io da questa ragazzina ci sono stata. E’ sveglia, allegra, un po’ noiosamente superficiale. Ma tutto meno che una ragazzina sola. Tutto meno che un’asociale. Tutto meno che una che da sola non ce la fa.
Allora perché, che bisogno c’è che un genitore amplifichi le difficoltà del proprio figlio? Forse per poi mettersi a posto la coscienza prestandosi a spianargliele dopo avergliele ingigantite?
Oppure, perché questi genitori che non sono persone ignoranti né prive di mezzi, perché non si sono mai preoccupati che i loro figli imparassero prima di tutto a leggere, a scrivere senza fare gli errori di ortografia, a non faticare come dannati ogni volta che prendono la penna in mano? A insegnargli il significato delle parole che non conoscono?
Ho avuto ragazzini che non hanno il senso della pagina. Faticano a stare dritti dentro le righe, saltano le lettere, lasciano le parole a metà.
Devono pensarci su persino quando cancellano, stentano a riprendere il filo dopo aver sbagliato. Ora, ammettiamo anche che a scuola non gliel’abbiano insegnato. O magari che non sia bastato loro il tempo di apprendimento della scuola. Ci sta, succede. Tanti bambini avrebbero bisogno di essere seguiti in modo molto più approfondito e personale di quanto non sia materialmente possibile fare in classe. Certo, ora il maestro unico metterà a posto tutto.
Ma comunque sia io penso che là dove non arriva la scuola, ci arriva l’aria che prima il bambino e poi il ragazzino respira all’interno della sua famiglia. Allora io guardo sempre, quando entro in una nuova casa, se è una casa con dei libri. Se c’è il salotto deserto e il televisore al plasma che occupa mezza parete. Se emana un’atmosfera ospitale o no, se la sensazione è quella di esserne respinti. Se, quando studiamo in camera, la persona che ci dorme dentro ha riflesso la sua personalità sull’ambiente intorno. Certe camere sanno di impersonale, di neutro controllato. Quasi dei piccoli studi. Tutta una serie di cose che possono costituire una spiegazione, almeno parziale.
Per dire che non è che basta pagare e tutto si aggiusta da solo. Che forse, questi genitori imparanoiati è anche che un po’ sentono che qualche responsabilità ce l’hanno. Che in fondo questo ragazzino con la sua mamma strega mi dispiacerebbe un sacco abbandonarlo. Che in fondo non è un lavoro di merda tout-court.
E’ un lavoro che regala stralci meravigliosi di commedia umana, a volte.

Troppo freddo.
Troppo freddo.
Troppo freddo.
Troppo freddo.
Troppo freddo…
(Il mattino ha l’oro in bocca?)

E’ arrivato, non so bene quando, un momento nella mia vita in cui mi sono fatta l’idea che l’accettazione di sé passi attraverso due fasi, in modo più o meno necessario.
Partendo dalla fine, potrei dire che si capisce di essere arrivati in fondo nel momento in cui si impara a prendersi cura di se stessi, a saper scegliere ciò che fa stare meglio. Soprattutto, però, nel momento in cui si impara a farlo unicamente per sé. Non perché hai qualcuno per cui lo fai. E soprattutto nel momento in cui si smette di pensare che lo si fa per compensazione, perché non va bene il modo in cui si è.
Io credo che la fase finale sia arrivare alla cura di sé come dimostrazione del rispetto che si ha per se stessi.
In mezzo stanno tanti scogli e passaggi più o meno obbligati, i mille corsi e ricorsi del demolirsi e del ricostruirsi per poi abbattersi nuovamente.
Adesso mi sento un po’ tra la metà e i tre quarti del percorso. L’altro giorno si parlava di mettere a posto le cose dell’alimentazione, ma può estendersi benissimo a tutto il resto.
Perché io mi ricordo, tre anni fa, i dieci chili di meno in due mesi e mezzo con la dieta fai da te. E mi ricordo anche che me lo dicevano tutti, come stavo bene, com’ero in forma. Però poi ripenso al chiodo fisso che era, l’ossessione di quante calorie, i pasti saltati, i cali di zuccheri a metà giornata. E che con i soldi della borsa di studio mi ci volevo comprare le Prada, anche. E penso che se mi avessero mai detto che ero grassa o sfigata o fuori moda io dalla vergogna sarei andata in giro con il passamontagna.
Ma se mi avessero fatto una qualunque critica, mi si sarebbe aperta la terra sotto i piedi.
Solo che a un certo punto succede che uno esplode. Così nel giro di un mesetto i dieci chili sono tornati su con gli interessi, intanto che iniziavo a criticarmi da sola perché non ci fosse bisogno che lo facessero altri. E ho preso a fare la bastian contraria, e a imbruttirmi volutamente per far vedere che non me ne poteva importar di meno. E quindi mangiavo di rabbia, di nervoso represso, mangiavo a costo di morire poi dalla nausea e un po’ anche dai sensi di colpa, vergognandomi con tutta me stessa ma senza saperlo impedire, senza gusto e senza criterio e con il solo risultato di farmi detestare da me stessa ancora di più, intanto che ero occupata a detestare l’universo.
E poi non so, com’è finita.
Forse non lo è ancora, non del tutto, perlomeno. Ma c’è di buono che io mi sento che vado bene così, e non ho bisogno di fingerlo. Così mi rotolo tantissimo in questa sicurezza che mi è nuova, mi stravacco nello star bene con i miei chili di troppo e il mio stile senza logica e mi tengo così come sono, in un regime di allegra indulgenza spensierata che si dimentica di riportarmi all’ordine. Perché credo che poi debba arrivare anche il momento in cui andrò a farmi rimettere tutta a posto, starò attenta a quello che mangio e mi curerò la pelle e i capelli e mi vestirò bene e imparerò a comportarmi in modo adeguato alle circostanze e a non dire le parolacce e a non fare brutta figura quando vado in giro.
Ma una pianta prima la fai crescere e poi le tagli i rami. Allora per adesso ho deciso che prima mi faccio crescere così per un po’, selvatica e insofferente e pronta a ridermi addosso. E più tardi vedrò se riesco a prendermi di più sul serio, intanto mi godo così come sono.
Che a volte, mi rendo conto, non è troppo un bel vedere, e un bel sentire.
Perché poi sono arrivata alla conclusione che sto bene quando sono vestita male.
E i capelli mi piacciono di più da quando ho smesso prima di tentare di lisciarli, e poi di pettinarli direttamente.
E poi come mi muovo faccio cadere qualcosa, e sparecchio sempre prima che tutti abbiano finito di mangiare.
E fumo sigarette da camionisti, e impreco con la stessa dovizia lessicale di quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino.
E bestemmio in pubblico. E non sono capace di truccarmi e poi non mi strucco mai e lascio segni di matita nera dappertutto.
Se entro in un qualsiasi locale dove stanno passando una canzone che mi piace mi metto a cantare e mi faccio guardare male da tutti. Leggo i giornali della gente sull’autobus e i libri degli altri da sopra la spalla.
E quando vado in un posto elegante passo tutta la serata a contorcermi come un’anguilla e mi tolgo sempre le scarpe sotto il tavolo, ma spesso e volentieri anche in mezzo alla strada.
Mangio troppo veloce.
L’ombrello lo apro quando inizia a piovere forte e quando non me lo sono dimenticato. Non ho mai gli assorbenti dietro quando ne ho bisogno. Dovunque vada dimentico qualcosa. Compro i vestiti senza pensare a come abbinarli e poi li faccio fuori senza averli mai messi perché in effetti non stavano proprio con niente.
Perdo i soldi, dimentico di restituirli a chi me li presta e però non mi sognerei mai di chiedere indietro quelli che do.
La concretezza delle cose mi manda in panico.
Arrivo sempre in ritardo, dimentico di rispondere agli sms e un sacco di volte tiro pacchi perché mi scordo gli impegni presi in precedenza per quello stesso giorno.
Il giornale lo leggo sempre la mattina dopo.
Sono maledettamente pigra, vivo secondo il principio di inerzia. E un sacco lunatica. E i giorni prima del ciclo sono assolutamente intrattabile.
A volte mi prenderei a schiaffi. Altre penso che, un po’, meno male.

nuovorario

Io speriamo che riesco a scrivere qualcosa, prima o poi…

E se mi facessi bionda?
Tutta color colpo di sole scolorito.
Ovviamente scherzavo.
E se mi facessi nera ma proprio nera con un po’ di viola?
Mmmmh, no eh?
E se mi facessi rossa-violacea-henné?
Forse ci siamo un po’ di più.
E se mi bucherellassi ancora un po’ le orecchie?
E se riprendessi a suonare?
E se andassi in piscina?
E se questo sabato boicottassi le due ore di scienze per una più costruttiva e confacente-alle-mie-inclinazioni manifestazione antiriforma non meglio precisata?
E se leggessi un po’ di libri carini?
E se andassi a rifare il Bancomat e l’abbonamento dell’autobus che ho perso, e a ritirare il foglio rosa?
E se studiassi, anche, ogni tanto?
E se prendessi la patente?
E se mi andassi un po’ a divertire?
E se mi comprassi un sacco di vestiti nuovi?
E se ci fosse un bel concerto da sentire?
E se la smettessi di fare la Ragazzadepressa?
E se la smettessi di sforzarmi in tutti i modi per far assomigliare il mio blog al Windowslivespace di una quindicenne albarina e stupida?
E se tornassi ad assomigliare a un cervello pensante?
Eh?

Lo faccio, che dite, lo faccio?

(Amica, me lo ridai adesso, il mio cane???)

SONO GIORNI
QUESTI
DI UN’ANSIA CHE VOI NEMMENO VE LA IMMAGINATE

Stasera la Festa Di Compleanno Ansiogena.
Domani il treno per Torino.
Dopodomani la scuola, ebbene sì.
Un libro da leggere e recensire tra stasera e domani sul treno e domani sera a casa.
Un sacco di pigrizia, e di voglia di far niente.
In questi giorni latiterò un po’.

disavventure

La nausea.
L’odore dei vicoli. La gente dei vicoli. Il sudore dei vicoli.
La nausea, le gambe che cedono.
Lo spavento.
(Non quello spavento da nausea che vi spaventate pure voi, no.)
La testa che gira, la pelle che sbianca, le gambe che cedono.
Il rumore di una serranda abbassata. Quella contro cui sono andata a sbattere.
E Piazza Campetto vista da sotto in su, accasciata su uno scalino.
E io che penso Non posso stare male, non posso vomitare, non posso svenire che domani devo andare a Torino.
(A parte star male, nulla di tutto ciò è successo, se non altro. Ma.)
E quattro amiche spaventate viste da sotto in su.
E le labbra trasparenti.
E farsi riaccompagnare a casa alle cinque del pomeriggio.
E continuare a ripetersi come un mantra, Ma io adesso sto bene.
E non ho neanche comprato le cose che mi servivano.
Ma io adesso sto bene. Quasi quasi esco di nuovo e vado al supermercato qua vicino a comprarle.
Meglio di no.
O sì?
Che non ho voglia di fare la malata ansiosa chiusa in casa, adesso.
Ma non ho neanche voglia di fare Wonderwoman, però.
Ma io adesso sto bene.
L’Amica dice che è colpa delle sigarette.
Io dico la stramaledetta sfiga. Il caldo, l’aria ferma. La granita al porto antico, che lo dicevo io che ci aveva un aspetto strano.
Uffa.
Domani mattina sarò sul treno, in ogni caso.