Ho bisogno di tornare a scrivere un po’. Molto bisogno.
E non lo so cosa sia successo in questi ultimi tempi, fatto sta che non ci riesco più.
Per due ragioni, fondamentalmente.
La prima è una ragione stupida, ma tant’è.
E la ragione stupida è che questo blog non mi piace più. Non mi piace talmente più che i post, per riuscire a finirli, sono costretta a scriverli da un’altra parte e poi fare copia incolla. Ma poi, dopo, quando leggo, non la riesco proprio a sopportare questa schermata che è troppo bianca e troppo verde, con gli allineamenti dei riquadri laterali tutti sballati, con i caratteri scritti troppo grossi, con quel Malato di cuore lungo otto chilometri a fare da titolo, messo lì quando ho aperto il blog ed ero una diciassettenne triste alla ricerca disperata di un Qualcosa che mi mettesse in comunicazione con il mondo. Un filtro, quello della virtualità, che mi consentisse di sconfiggere altri filtri, di rompere quel vetro invisibile che mi tratteneva ostinatamente dall’altra parte. Fino a venirne fuori, in qualche modo, lentamente, emergere piano da quella specie di fanghiglia emotiva che mi imprigionava.
E sotto questo punto di vista ha funzionato. Ma tantissimo, ha funzionato.
Adesso però la guardo questa schermata insopportabile, e non mi ci riconosco più, non mi riconosco più nelle sensazioni istintive che mi trasmette e anzi, ne sono tremendamente infastidita. La guardo e mi rimbalza addosso l’immagine di me allora, con quella tristezza appiccicosa, con quell’indefinito di sensazioni sgradevoli. La guardo schifata dal senno di poi, perché ho imparato a diffidare delle finte sicurezze che la tristezza può offrire e ancor più degli uomini che se ne lasciano sedurre, e poi perché mi sono resa conto che la vita di un Malato di cuore è mai poter bere alla coppa d’un fiato, ma a piccoli sorsi interrotti, nient’altro. Con tutto quello che può significare.
La seconda cosa è direttamente collegata, al punto che non so neppure quale delle due influenzi l’altra, e però è molto più difficile da rimediare. Potrei dire che da domani inizierò a pensare a un nome nuovo per il blog, a un look nuovo che mi trasmetta sensazioni positive, un po’ come quando si cambia il taglio di capelli o il colore, o entrambi. O anche potrei mettermici subito, appena finito di scrivere, sempre che ci arrivi, alla fine, perché sento già quella sensazione odiosa che mi paralizza le mani sulla tastiera facendomi vergognare di quello che scrivo, di come lo scrivo e di quanto poco assomigli al modo in cui l’ho pensato.
L’ho detto, eccolo qui, il secondo problema.
E’ una cosa che ho capito in modo chiaro dopo che mi è venuto in mente di fare l’esperimento dell’Ortica. Il fatto è che l’Ortica è prima di tutto un espediente di scrittura. Prima ancora di essere diventata il filtro attraverso cui io cerco di guardarmi in modo oggettivo e di demolire i miei alibi. O forse è nata come le due cose insieme, inscindibili l’una dall’altra.
Quello che è certo, in ogni caso, è che io non posso sentirmi a mio agio quando scrivo solo nella misura in cui faccio finta di essere qualcun altro. Così aggiro l’ostacolo ma non risolvo il problema, che sono io, la percezione che ho di me attraverso la scrittura.
Scrivo come se mentre sto scrivendo desiderassi con tutte le mie forze di essere un altro, qualcuno che lo sa fare meglio di me, ma non solo, qualcuno anche che ha veramente qualcosa da raccontare, o da inventare, o su cui saper pensare.
Scrivo come qualcosa che si desidera intensamente ma poi genera mille ripensamenti, ma anche come qualcosa che ho deciso che in un modo o nell’altro avrei imparato a fare, costi quel che costi. Avrei sicuramente raccontato delle storie, per non morire. E quindi no, non mi arrendo ancora.
Inizierò cambiando il look al mio blog, ma poi soprattutto farò esercizio, leggerò tanto, vivrò a fondo. Lavorerò su questo mio accettarmi a malincuore, come si accetta un figlio non voluto. Lo trasformerò, lo riconvertirò.
E poi chissà.
E c’è un’alba, simile a mille altre che hai visto nel corso della tua vita, con la luce che è grigia e lentamente si schiara, e si colora, e dapprima è celeste, è poi rosa, quindi in un baleno, da dietro i poggi, sbuca il sole, e il cielo, investito da tanta luce, sembra scattare più in alto. (…) E’ il giorno in cui, a nostra insaputa, la vita si volta come si volta sul palmo il dorso della mano…