Potrebbe spiegare un milione di cose.
Potrebbe essere la ics dell’equazione che non mi tornava.
Ma porcamiseria, è una cosa importantissima, questa. Come ho fatto io a non rendermene mai conto? Non aver mai pensato che potesse essere proprio questo il qualcosa che non andava?
Devo essere stata proprio cretina, o magari terribilmente distratta, o magari cieca di troppo guardarmi dal di dentro senza sapermi immaginare dal di fuori, o troppo pigra, anche, che è un’ottima ragione per darsi sempre delle scuse di comodo.
Allora, Compagna Amber che non ride mai ma proprio mai, perché, compagna, perché non ridi mai? (Intrusione estemporanea dell’Ortica, che parla a nome dell’amicaE.)
Perché? Eh?
E lo confesso che mi dà un fastidio maiale. Mi riduce l’orgoglio a pezzettini, io che su me stessa pretendo di avere l’esclusiva. La fatica che sto facendo, in questo momento, ad ammettere che ho trascurato una cosa di un’importanza capitale, che neppure me ne rendevo conto, e passavo le giornate a fare la muffa in giro e chiedermi cos’è che non andava.
(Stai divagando. Perché, allora, si può sapere? dice la voce fuoricampo)
Ma a me viene male, a pensare che mi sono ridotta come l’Unione Sovietica. Dall’entusiasmo straordinario della rivoluzione al grigiore soffocante del regime. Sono diventata grigia e spoglia anch’io, come la facciata di un palazzone operaio alla periferia di Stalingrado. Il regime me lo sono imposto dentro la testa, facendo morire i Majakovskij e i Trotzkij, zittire le canzoni di festa, imbavagliare le parole di allegria nella mia mente. Steso su tutto un patto d’acciaio pesante come i compromessi, le rinunce, la noia. E’ così che ho funzionato per tutto questo tempo. E il mio cervello ha lavorato lavorato lavorato. Piani quinquennali di autocritica, ridiscussione, esercizio della mente. E non è che non sia servito a niente. Sotto Stalin l’industria pesante andava, eccome se andava. E anche la mia testa non se l’è cavata troppo male. Ma le ho fatto mancare un sacco di cose, e in ultima istanza dimenticare la motivazione profonda che la muoveva a fare tutto quello per cui si sforzava. Che era crescere, intellettualmente, criticamente, umanamente. Era aprirmi alle cose che avevo ignorato, ritrovare la continuità con il mio passato, era imparare nuove cose, un modo diverso e più valido di pensare e di stare al mondo, mettere in discussione in modo radicale quello che ero stata fino a un certo punto della mia vita.
Ecco cos’è. Che per tutto questo tempo c’era la censura. Finito un piano quinquennale se ne vara un altro, senza tregua, senza riposo e senza alternativa. Uno dove lo trova il tempo di ridere? Non si può. Tu devi pensare, Compagna. Non puoi permetterti distrazioni. Devi pensare pensare pensare. Lavorare lavorare lavorare. Devi tagliare fuori tutto ciò che ti distoglie dal raggiungere la tua meta, che chissà poi se esiste davvero. Ma così uno scoppia. Così è come tirare l’elastico della mutanda, direbbe la mia maestra di canto. Senza leggerezza, uno arriva massimo massimo alla prima ottava, al passaggio si strozza e la voce gli rimane lì.
E io ho macinato ore e ore di lavori pesanti, perché a un certo punto non volevo più essere la Compagna Amber bravissima a scuola e insignificante inconsapevole nella vita, per indolore che fosse questa condizione. Voi non lo sapete com’ero io un tre anni fa. Meglio così. Chi lo sa se lo dimentichi.
Io lo so, adesso, che quella che sono diventata lungo questi anni deve moltissimo ai miei piani quinquennali e allo sforzo che ci ho messo. Ma so anche che c’è tutta una fetta di mondo che le manca, perché lei stessa se l’è preclusa.
Come ho fatto a prendermi così esageratamente sul serio?
Adesso devo imparare a sdrammatizzare e ripensare tutto quanto in un’ottica completamente diversa. Devo appropriarmi di questa dimensione, che è un modus vivendi prima di tutto, di cui io non ho la minima esperienza né reale né virtuale, purtroppo per me. Compito per i giorni a venire, Compagna: devi imparare l’ironia. Smetti di estrarre carbone, Compagna, basta.
Devi scovare il pensiero-volantino introdotto clandestinamente nella fabbrica.
Dove c’è scritto che vogliamo il comunismo, quello vero, quello bello. Non Stalin.
Non l’Unione Sovietica ma il Cile di Salvador Allende. Con le canzoni, con la gente che ride nelle strade, con i murales bellissimi sulle facciate.
Ci vorrà tempo. Lenta costruzione. Acqua e respiro. Rotolando si gira, si balla
si vive, si fa festa. Rotolando si vive di discorsi leggeri, cori, di maschere notturne.
E questo, questo io me lo sono sempre dimenticato.