Questo post è un parto podalico.
Per ogni riga scritta tre di cancellature, per ogni frase un dubbio sul come, sul che cosa, sul se. Da tre giorni.
Tre giorni in cui i blog della Comune-ty sembravano la striscia di Gaza.
In cui su questa storia si è litigato, discusso, ricamato. Fino a oggi, che è sabato e tutto il mondo dorme o è in fuga verso il weekend, e il mio post sbrodola pericolosamente in direzione del lunedì. Allora facciamo che dopo basta. Perlomeno qui.
E’ che fatico davvero a ritagliarmi una mia posizione all’interno di questa discussione che si spinge al di là dell’ambito che mi riguarda direttamente: fatico a capire in che misura ha senso che io intervenga, l’atteggiamento che dovrei tenere, stento a riconoscermi in questo ruolo a cui non sono abituata, che mi calza strano e mi mette a disagio.
E lo dico subito, che non entro nel merito del chi ha detto che cosa e perché l’ha detto e perché lo pensa. Perché sarebbe un’operazione sbagliata, un passaggio arbitrario a un piano che sta al di fuori, di quelle che possono essere le mie prerogative all’interno di questa vicenda. E’ chiaro che se io ho fatto determinate scelte, il mio punto di vista non può che essere immanente al fatto stesso di averle fatte. Il mio punto di vista di quando le ho fatte, ma anche il dopo, sia pure filtrato attraverso la rielaborazione e i ripensamenti e tutta questa serie di cose qui. E’ chiaro che certe analisi vanno decisamente oltre a quello che è giusto e naturale e normale che pensi io. Non so come spiegare, se rendo l’idea, di come cambia, in modo strutturale, intrinseco, la percezione di una stessa cosa a seconda se la vivi dal di dentro o dal di fuori, a seconda se hai diciottanni o se ne hai un tot di più. Di come sarà diversa questa storia quando la racconterò tra dieci anni, di come le spiegazioni che di volta in volta ci si possono dare siano tutte vere nel momento in cui uno se le dà, ma si superino e si scavalchino l’una con l’altra, senza per questo essere ciascuna meno vera.
E’ altresì inutile ai fini della discussione, oltre che a mio parere fuori luogo in questa sede, che io stia a entrare nel merito del che cosa e del come di questa storia. Che già l’ho fatto a sufficienza, che tutt’al più davanti a una tazza di the o un aperitivo e non certo davanti alla tastiera e in bella vista ai naviganti della rete. Che non mi pare neppure coerente e neppure corretto fare atti d’accusa alla luce di riflessioni altrui: ecco, sì, si è comportato proprio così come dici tu, allora è stronzo. Questo proprio no. Credo che non si possa imputare all’insieme delle circostanze specifiche il fatto che io determinate cose abbia fatto finta di non vederle, o abbia rinunciato a cambiarle, o le abbia prese così com’erano sapendo che avrebbero potuto essere meglio. Essere miopi e poco o niente obiettivi credo che in una storia ci possa stare, indipendentemente. E io non penso più di dovermene pentire.
Una cosa, però, mi sento di dirla, per amore di verità.
Ed è che non è mia abitudine prendere treni di nascosto per andare a conoscere in altre città il primo che passa e mi lascia un commento sul blog. Ecco, questo sì. Io la percezione di una discriminante ce l’ho sempre avuta, nettissima, e questo per me ha fatto tutta la differenza del mondo. Non dico che sono incrollabilmente certa che in assenza di questa discriminante qualunque sviluppo sarebbe stato precluso: ma di sicuro tempi e modi sarebbero stati ben diversi. Questo è come sono andate le cose, per quel che riguarda me, all’inizio. E la Comune-ty era di per sé una garanzia più che sufficiente a inibire qualsiasi diffidenza.
Per quanto non tutto mi tornasse di questo rapporto, in che termini si ponesse, con la Comune-ty in generale e con i comune-tary uno per uno, quanto ci fosse di strascichi di cose passate, quanto ci fosse di ancora vivo, quanto ancora fosse effettivo.
Ma un legame c’era, e questo bastava. E il problema, casomai, me lo facevo in senso opposto: proprio perché non sapevo in che termini il legame si poneva, e c’erano i trascorsi, e c’era che io nella Comune-ty ci ero arrivata da poco, e allora mi sembrava quasi di essere io ad approfittare.
Adesso penso che mi spiace di essermi appoggiata su questo legame così inconsistente e sulla sicurezza che mi ispirava, per come questo chiama in causa le persone che c’erano coinvolte: per come in fondo si dava per scontato un qualche cosa che in realtà non c’era, e che comunque riguardava loro.
Penso al peso che scelte personali possono avere sul senso stesso del definirsi comunità. A come le due sfere entrino in comunicazione tra di loro, a quanto sia labile la percezione di dove finisce l’autoreferenzialità in ciò che uno fa.
A quanto sia anche questa una responsabilità. Ma anche a quanto sia stranamente e meravigliosamente bello questo fatto, in quel modo che non si può spiegare che è il modo della Comune-ty un po’ in tutte le cose, penso. Al di là delle singole cose.